Il racconto
Mio nonno sputava l’anima e i suoi polmoni in una vecchia tromba.
La teneva con sé la notte, sdraiata nel letto come una concubina insostituibile.
Faceva percorrere al suo fiato vie sconosciute, fessure e passaggi obbligati, con minuscole contrazioni delle falangi distrutte dal lavoro e lasciava fosse il suo di dentro a comandare, quel che gli rimaneva appena al di sopra dello stomaco, i suoi polmoni malati.
Mio nonno là dentro, nel ferro, sputava anima e terra, un grumo di dolore e di polvere, quella che respirava, costretto tutto intorno al pezzo di marmo che aveva imparato sapientemente a levigare.
Lui toglieva dal marmo l’eccesso di forma, come si dice facessero i maestri della materia, un Michelangelo improbabile e padano, decisamente limitato nella sua povertà.
La toglieva da lì e la inspirava tutta quanta risoffiandola nella sua tromba.
Lavorava al cimitero di Riolo, sulla sponda sinistra dell’Adda per lo più per chi gli commissionava lapidi e capitelli.
Portava ancora i calzoni corti quando gli misero in mano lo scalpello.
Era un uomo così asciutto da essere costretti a credere non potesse soffiare tanta aria nella tromba e avere la forza di picchiare sullo scalpello che induriva le sue dita.
Anima e polvere bianca erano intrappolate nel suo esile tronco insieme ai pensieri, giù in fondo, nello stomaco.
La tromba era come un fucile, per sparare contro l’invasore.
Puntava l’arma dal suo balcone a mirare le sentinelle a guardia del presidio tedesco.
Al tempo la scuola elementare di via San Giacomo, nella città bassa, era stata trasformata in una sede militare tedesca.
Si erano presi cosi uno dei momenti più preziosi per lui, guardare i suoi figli correre a casa dopo la scuola.
Allora suonando lui puntava il suo ferro contro gli uomini in divisa, contro il fascismo, mirava al petto di un uomo giovane che scrutava il cielo per accorgersi del suo nemico
Un nemico atteso tutti i giorni. Gli aerei alleati.
Un giorno il suono dell’aereo si era fatto così vicino che il soldato tedesco girò il suo fucile per sparare in alto contro l’aereo inglese e mio nonno cominciò la sua guerra
Una tromba contro un fucile
Spalancò le persiane del balcone che si affacciava alla roggia di sotto: vivevano in cinque in una stanza in uno delle tante case di ringhiera del Borgo.
Faceva uscire un barrito misto a note, polvere e rabbia, era come sparasse.
Dal suo balcone attirava l’attenzione spingendo insulti nella tromba, voleva che il tedesco si voltasse contro di lui che mordeva il suo ottone fra le labbra e diventava bersaglio.
Fu gesto veloce e poco preciso per fortuna, quello del soldato che si voltò contro la tromba a sparare e fu gesto altrettanto veloce lo strappo che mia madre, poco più di una bambina, fece a riportare oltre le persiane suo padre, che non smetteva di urlare con la sua tromba.
Il suono si era sparso in giro, aveva raggiunto i cortili e la strada, come richiamo, con un tempo di vita lungo, esteso molto più che uno sparo.
Suono veloce uguale ma così aperto da colpire bersagli imprevisti, le orecchie di tanti.
Donne alle finestre e bambini di corsa sulle scale e sulle rive del fosso apparsi a difendere un uomo che stava difendendo loro sputando quel che gli rimaneva del suo fiato, trasformandolo in faticose note, poco pulite ma di una precisione mai sentita.
Il soldato grigio non aveva abbastanza fiato per resistere alla gente e nemmeno coraggio e al contrario di mio nonno rimasto immobile e libero sul suo balcone, se ne era scappato
Aveva vinto un duello, aveva vinto.
Non ho mai visto mio nonno, non l’ho conosciuto.
Questa storia me l’ha raccontata sua figlia, mia madre che ancora oggi si spaventa nel ricordare e si sente ancora impotente per non esser riuscita a strattonarlo abbastanza e trascinarlo via da quella lotta impari.
Estate e inverno ha cavalcato la sua bicicletta nera a respirare nebbia e afa all’alba e poi la polvere di marmo sino al tramonto e a risputare tutto alla sera nella tromba, in cortile per chi chiedeva di ascoltare.
Un soffio cattivo lo ha portato via, in un giorno qualsiasi, dentro la pianura umida del profondo nord.
Lo hanno portato nello stesso posto in cui andava tutti i giorni, al cimitero dove ha sempre lavorato,
Lo hanno seppellito nella terra dura e gelata e contadina.
Hanno messo sul cumolo di terra un capitello corinzio, uno di quelli che aveva ritagliato per sé nei minuti di pausa, mentre mangiava gallette di riso e patate.
Aveva lasciato detto che non mettessero a guardiano nessun putto alato e nessuna ieratica madonna
Aveva lasciato scritto che lo seppellissero con la sua tromba, la voleva con sé, che voleva essere armato nel caso in cui, in qualsiasi altro posto, si fosse ritrovato davanti un qualsiasi altro nemico.
E sperava una volta colpito che sulla tomba di quel nemico mettessero una sua scultura, uno di quegli angioletti asessuati
Uno di quelli scolpiti con una tromba fra le labbra.